Pubblicato: 12 Settembre 2018 - Categoria: Giurisprudenza

All’assegno di divorzio previsto dall’art. 5 comma 6 della Legge 1° dicembre 1970 n. 898 (c.d. legge sul divorzio), va riconosciuta una pluralità di funzioni: assistenziale, compensativa e perequativa. Per il riconoscimento di tale assegno il giudice deve procedere ad un accertamento in concreto, volto a verificare la sussistenza o meno di “mezzi adeguati” o comunque l’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive. In tale indagine egli dovrà fare applicazione dei criteri guida contenuti nella prima parte della norma (“condizioni dei coniugi”, “ragioni della decisone”, “contributo personale e patrimoniale alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale dei coniugi”), fondati sul principio costituzionale di solidarietà familiare.

 

Le Sezioni Unite della Cassazione, con la pronuncia dell’11 luglio 2018 n. 18287, hanno scritto probabilmente l’ultimo atto della vicenda relativa al riconoscimento e alla determinazione della misura dell’assegno di divorzio, componendo il contrasto che si era venuto a creare dopo la pronuncia C. Cass. n. 11504 del 2017 (nella causa Grilli–Lowenstein), che aveva ritenuto di discostarsi radicalmente dall’orientamento introdotto da C. Cass. n. 11490 del 1990, pronuncia quest’ultima che per circa trent’anni aveva guidato i giudici di legittimità e di merito chiamati a decidere sulle domande di assegno di divorzio.

In base a quest’ultimo orientamento l’assegno di divorzio avrebbe natura esclusivamente assistenziale, unica condizione per la sua concessione essendo l’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente (redditi, immobili o altre utilità) tali da non consentirgli di conservare un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio. Non quindi la sopravvenienza di uno stato di bisogno successivamente alla rottura del vincolo coniugale, quanto invece l’apprezzabile deterioramento, in dipendenza del divorzio, delle precedenti condizioni economiche, le quali devono essere tendenzialmente ripristinate per ristabilire un certo equilibrio.

In senso opposto, invece, la sentenza n. 11504 del 2017 che ha individuato come parametro dell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge istante – in modo molto più stringente - la non autosufficienza economica dello stesso. Con la conseguenza che solo ove ricorra tale presupposto di inadeguatezza (inesistente ove vi sia la percezione di un reddito anche molto basso purché “sufficiente”) il giudice sarebbe autorizzato a fare applicazione dei criteri ermeneutici della prima parte dell’art. 5 comma 6 della legge n. 898/1970.

Entrambi questi orientamenti vengono censurati dalla pronuncia a Sezioni Unite in esame che ritiene insoddisfacenti le argomentazioni impiegate dai precedenti arresti.

Alla pronuncia del 1990 viene sostanzialmente addebitato di aver dato esclusivo rilievo all’aspetto della comparazione delle condizioni economico-patrimoniali dei coniugi, quale elemento fondante l’accoglimento della richiesta di assegno. Ove infatti si guardi alla necessità di ricostituire il tenore di vita goduto durante il matrimonio, l’accoglimento della richiesta di assegno potrebbe risolversi in un ingiustificato arricchimento per l’ex coniuge che possa comunque giovarsi di una posizione economica autonoma o addirittura agiata.

Non così, invece, se l’orientamento avesse anche considerato l’apporto fornito dall’ex coniuge nella conduzione e nello svolgimento della complessa attività endofamiliare, quale espressione di scelte condivise ispirate all’autoresponsabilità. Una disparità economico-patrimoniale tra i coniugi accertata in sede di scioglimento del rapporto, laddove sia conseguenza di scelte operate da coniugi in ordine ai ruoli e al contributo di ciascuno alla vita familiare, deve portare a considerare quella disparità non disgiuntamente ma unitamente agli altri elementi che danno fondamento costituzionale all’assegno di divorzio, e che si rinvengono nell’art. 5 comma 6 citato.

Alla pronuncia del 2017, invece, pur apprezzata dalla S.C. per aver messo in evidenza l’inattualità del precedente orientamento - poco ispirato come esso era alla valorizzazione delle scelte personali e dunque al profilo dell’autoresponsabilità - si contesta tuttavia la non corretta applicazione di quest’ultimo principio, inteso dai Giudicanti del 2017 come riferibile al solo parametro della carenza di autosufficienza economica del coniuge che richiede l’assegno. Tutta la solidarietà post coniugale, quindi, verrebbe riduttivamente riportata alla non autosufficienza economica, così marginalizzando i principi di autodeterminazione ed autoresponsabilità fissati nell’art. 2 della Costituzione.

La Corte osserva invece che il fondamento costituzionale dell’unione matrimoniale è l’uguaglianza tra i coniugi, sancita nell’art. 29 Cost. Solo una relazione governata da scelte che sono il frutto di determinazioni liberamente assunte dai coniugi sui ruoli e sui compiti da assumere nella vita familiare porta alla piena esplicazione dei principi dell’autodeterminazione e dell’autoresponsabilità, posti a base dell’obbligo reciproco di assistenza e di collaborazione nella conduzione della vita familiare dall’art. 143 c.c.

Quei principi – osservano le Sezioni Unite – non esauriscono il loro ruolo all’interno del vincolo matrimoniale ma continuano anche dopo lo scioglimento dell’unione coniugale. E’ questo uno dei principali rilievi mossi alla pronuncia del 2017.

Anche dopo lo scioglimento del matrimonio, dunque, i principi di solidarietà familiare che caratterizzano con particolare pregnanza il vincolo coniugale, non si azzerano ma continuano a far sentire i propri effetti anche dopo la scelta di far venir meno il rapporto. Le scelte libere e consapevoli che hanno orientato i coniugi durante la vita matrimoniale e che li hanno guidati anche nella decisione di sciogliersi dal vincolo, sono circostanze di cui il Giudice deve tener conto per stabilire gli effetti (principalmente economici) che possono conseguire dopo lo scioglimento del vincolo.

Come chiarisce la S.C. “l’immanenza del principio di autoresponsabilità risulta cristallizzata nei criteri fissati nell’incipit dell’art. 5, comma 6, individuati dal legislatore nelle condizioni dei coniugi, nelle ragioni della decisione, nel contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, nel reddito di entrambi, nella durata del matrimonio”. Di conseguenza tali elementi non potranno mai essere tenuti fuori dall’accertamento del diritto alla corresponsione di un assegno divorzile.

Le Sezioni Unite offrono quindi una diversa – e condivisibile, a parere di chi scrive – opzione interpretativa, basata sulla lettura costituzionale dei parametri contenuti nell’art. 5 comma 6 della legge sul divorzio.

Si osserva che per converso detti valori costituzionali conducono ad una valutazione concreta ed effettiva - affidata al Giudice chiamato a decidere sull’an e sul quantum dell’assegno - dei “mezzi adeguati” contemplati dalla norma e delle “ragioni oggettive” che determinano per il richiedente l’incapacità di procurarseli. L’indagine muoverà innanzitutto dall’accertamento dell’esistenza della disparità economica tra gli ex coniugi, verificando anche se essa sia scrivibile ad una precisa scelta dei coniugi di conduzione della vita familiare, con il sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti in funzione dell’assunzione di un ruolo interno alla famiglia.

Tale scrutinio è essenziale per soppesare il contributo dato da ciascun coniuge alla formazione del patrimonio comune e/o del patrimonio dell’altro coniuge, oltre che le effettive potenzialità professionali e reddituali “residue”, al momento della conclusione della relazione matrimoniale, poste in relazione all’età del coniuge richiedente ed alla conformazione del mercato del lavoro.

E’ quindi su questo punto che deve essere effettuato il giudizio di inadeguatezza dei mezzi richiesto dalla norma e di incapacità del coniuge richiedente di procurarseli per ragioni oggettive.

Nell’ottica delle Sezioni Unite è proprio da questo parametro di adeguatezza - fondato sul principio di matrice costituzionale di solidarietà e pari dignità dei coniugi (artt. 2, 3, 29 Cost) – che emerge non solo la funzione assistenziale ma anche la funzione equilibratrice o perequativa dell’assegno di divorzio. Ciò conduce al riconoscimento di un contributo che partendo dalla comparazione delle condizioni economico-patrimoniali dei due coniugi, deve tener conto non soltanto del raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l’autosufficienza, secondo un parametro astratto, bensì (e su questo punto che si apprezza il divario da Cass. n. 11504 del 2017) anche di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, della durata del matrimonio e dell’età del richiedente.

La funzione perequativa che oggi le Sezioni Unite riconoscono all’assegno di divorzio non serve a garantire in capo all’ex coniuge il “tenore di vita” pregresso (incentivando odiose “rendite parassitarie”), bensì ad offrirgli un ristoro economico per aver contributo alla formazione del patrimonio familiare e personale dell’altro coniuge (contributo che il coniuge richiedente dovrà provare con ogni mezzo), a discapito delle proprie potenzialità lavorative o professionali sacrificate per l’impegno profuso all’interno della famiglia secondo le comuni scelte adottate.

Sul piano immediatamente operativo la sentenza 18287/18 impone alla difesa un più complesso onere di allegazione e prova. Si dovrà infatti esporre (e quindi provare, anche tramite presunzioni ovvero in virtù del principio di non contestazione) quali fossero, al momento della contrazione del vincolo matrimoniale, le potenzialità del richiedente l’assegno; quanto inoltre l’impegno profuso nella vita familiare abbia, da un lato, “favorito” la realizzazione dell’altro coniuge ed abbia, dall’altro, costituito un ostacolo o un rallentamento alla normale realizzazione e attuazione di quelle potenzialità.

Ecco dunque che sarà importante predisporre negli atti una sintetica ricostruzione della “storia della coppia”, in modo da consentire l’adozione di una decisione niente affatto standardizzata. Questo è apparso invero anche il punto di maggiore debolezza dell’arresto delle Sezioni Unite, paventandosi il formarsi di una giurisprudenza di merito eterogenea e territoriale.

Vero è che i parametri di cui il Giudice deve tener conto sono tutti contenuti nell’art. 5 comma 6 della legge sul divorzio, tutti importanti per delimitare – a parere di chi scrive - quel concetto di “adeguatezza” che per troppi anni è rimasto agganciato ad un dato (il “tenore di vita” pregresso), anodino e irrilevante, avuto riguardo ai principi costituzionali di solidarietà e pari dignità dei coniugi, giustamente esaltati dalla sentenza delle Sezioni Unite.

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