Con la recente sentenza n. 14158/2017 la Corte di Cassazione ha affermato la natura decisoria e non semplicemente gestoria dei provvedimenti del Giudice Tutelare, emessi all’esito della richiesta dell’amministratore di sostegno per essere autorizzato ad esprimere il consenso o il dissenso al trattamento sanitario a favore dell’amministrato, in conformità alle direttive anticipate da quest’ultimo formulate in un momento antecedente allo stato di incapacità.
Da tale decisorietà deriva pertanto l’ammissibilità del rimedio del reclamo alla Corte di Appello e del conseguente ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 720 bis commi 2 e 3 c.p.c.
La decisione (reperibile qui) si segnala per aver affermato - ancorché nei termini di un obiter dictum - che la designazione anticipata dell’amministratore di sostegno, ai sensi dell’art. 408 1° comma c.c., oltre a svolgere la mera funzione di scelta del soggetto cui deve rivolgersi il provvedimento di nomina del giudice tutelare (scelta da cui il giudice può disancorarsi solo “in presenza di gravi motivi”) può ben costituire il mezzo attraverso il quale assicurare il rispetto delle scelte relative alla propria salute, che siano state validamente espresse da una persona quando era ancora in grado di compiere tali scelte e da valere allorché essa non sia più in grado di decidere in modo consapevole ovvero di esprimere tale volontà (cd. direttive anticipate di trattamento).
In tale contesto la designazione è eziologicamente collegata all’attuazione delle scelte riguardanti la propria salute e costituisce, secondo la Corte, una chiara esplicazione del principio di autodeterminazione personale. I provvedimenti del giudice tutelare che riguardino la designazione dell’amministratore ed in particolare l’istanza “volta a far valere le direttive sopraindicate” assumono in questo caso natura decisoria, poiché esplicano “diretta incidenza” sulle libertà fondamentali della persona umana, quali il diritto alla salute, all’identità e alla libertà personale ed anche sulla libertà religiosa allorché, come nel caso esaminato, la scelta del trattamento sanitario sia connessa alla propria professione di fede.
Il caso. Il procedimento da cui trae le mosse la sentenza impugnata è relativo all’apertura dell’amministrazione di sostegno a favore di una persona, testimone di Geova, rimasta vittima di un grave infortunio sul lavoro, da cui era derivato uno stato d’incoscienza e di totale incapacità.
Prima dell’incidente l’incapace aveva sottoscritto un documento, intitolato “Direttive anticipate relative alle cure mediche con contestuale designazione dell’amministratore di sostegno”, ove erano descritti nel dettaglio le terapie e i trattamenti da accettare o rifiutare in caso di sua sopravvenuta incapacità, anche in considerazione della fede professata, contenente altresì la designazione della moglie quale suo amministratore di sostegno al solo fine di far rispettare dette direttive ed in particolare per manifestare il rifiuto di sottoporsi ad emotrasfusioni (pratica medica, come noto, ripudiata dagli appartenenti alla confessione de qua).
Il Giudice tutelare di Savona, con un unico provvedimento, aveva aperto l’amministrazione di sostegno, aveva nominato la persona designata dal beneficiario ma aveva al contempo negato l’autorizzazione ad esprimere il rifiuto all’emotrasfusione. La moglie del beneficiario aveva quindi impugnato il provvedimento di diniego con reclamo alla Corte di Appello di Genova, che però lo aveva dichiarato inammissibile ritenendo il provvedimento del giudice tutelare non decisorio bensì gestionale, come tale reclamabile solo dinanzi al Tribunale in composizione collegiale ex art. 739 comma 1 c.p.c.
La moglie proponeva quindi ricorso in Cassazione contestando preliminarmente la natura gestionale del provvedimento impugnato ed affermando che la corte di merito, fermandosi erroneamente ad una pronuncia di mero rito, aveva nella sostanza violato i fondamentali diritti dell’amministrato, quali l’autodeterminazione delle scelte sanitarie e il rispetto delle scelte religiose, tutelati a livello costituzionale e sovranazionale.
Dopo la proposizione del ricorso decedeva però il beneficiario e ciò determinava – al pari di quanto accade nei procedimenti di interdizione - l’inammissibilità del ricorso per sopraggiunta carenza di interesse. Ciò nondimeno la Corte, considerata la novità e l’importanza delle questioni sollevate con il ricorso, riteneva sussistere le condizioni per la pronuncia d’ufficio del principio di diritto nell’interesse della legge (ai sensi dell’art. 363 comma 3 c.p.c.) ancorché limitato alla sola questione di rito, stante la limitatezza del thema decidendum delineato dal provvedimento impugnato.
Le questioni processuali.
La Corte di Cassazione si è già occupata in passato della questione su quale sia il giudice competente a pronunciarsi sul reclamo avverso i provvedimenti del Giudice Tutelare in materia di amministrazione di sostegno, dipanando il dubbio sorto all’indomani dell’introduzione dell’art. 720 bis c.c., secondo cui nei procedimenti relativi all’amministrazione di sostegno avverso i decreti del giudice tutelare è ammesso il reclamo alla corte d’appello nonché il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti che decidono sul reclamo. Ha così chiarito che tale disposizione ha carattere speciale e prevale su quelle generali risultanti dagli artt. 739 c.p.c. e 45 disp. att. c.c., che attribuiscono al tribunale in composizione collegiale la competenza in ordine ai reclami proposti contro i provvedimenti del giudice tutelare.
Nell’ordinanza n. 18634 del 29 ottobre 2012 (in Giustizia civile Massimario 2012, 10, 1258) la Corte, nell’affrontare il problema della compresenza dei due diversi sistemi di impugnazione, ha ravvisato la ratio della speciale disciplina di cui all’art. 720 bis c.p.c. nella “particolare natura” del decreto con cui viene aperta (o negata) l’amministrazione di sostegno, che pur essendo adottato all'esito di un procedimento camerale non è assimilabile a quelli con cui il giudice tutelare provvede in ordine al compimento degli atti di amministrazione o di disposizione dei beni di soggetti incapaci, bensì alle sentenze con cui viene dichiarata l'interdizione o l'inabilitazione.
Il provvedimento di apertura e chiusura dell’amministrazione di sostegno incide in questo caso su “diritti soggettivi o status della persona”, assumendo perciò carattere decisorio e vocazione al giudicato, sia pure rebus sic stantibus essendo revocabile e modificabile solo nel caso in cui vengano meno i relativi presupposti o si modifichi la situazione di fatto posta a fondamento della decisione. La riprova di ciò sarebbe data proprio dal terzo comma dell’art. 720 bis c.p.c. il quale prevede che contro il decreto della corte d'appello pronunciato ai sensi del comma 2, può essere proposto ricorso per cassazione.
La suddetta disciplina non è però estensibile a “tutti” i provvedimenti emessi dal giudice tutelare nell’ambito del procedimento de quo, poiché resta salva l’applicazione della regola generale di cui all’art. 739 c.p.c. per le decisioni assunte dal giudice tutelare che abbiano contenuto solo ordinatorio e amministrativo.
In quest’ottica è stata ad esempio negata l’ammissibilità del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti emessi in sede di reclamo in tema di rimozione e sostituzione ad opera del giudice tutelare di un amministratore di sostegno (Cass. 23 giugno 2011 n. 13747 in Giustizia civile, 2012, I, 161; Cass. 10 maggio 2011 n. 10187, in Foro italiano, 2011, I, 2731). Quanto alla nomina, conformemente al principio di diritto enunciato nella sentenza in commento, è da ritenere che il decreto con il quale il Giudice tutelare conferisca l’incarico ad un amministratore di sostegno diverso da quello designato in sede di direttive anticipate di trattamento sia reclamabile dinanzi alla Corte d’Appello ed impugnabile in cassazione, ai sensi dell’art. 720 bis commi 2 e 3 c.p.c.
Consenso informato e amministrazione di sostegno. Pur essendo il decisum della pronuncia in esame limitato alle sole questioni di rito, appare opportuno, sulla scorta di alcuni passaggi argomentativi della motivazione, fare il punto sulle direttive anticipate di trattamento e sull’applicazione dell’istituto dell’amministrazione di sostegno quale strumento di attuazione di dette direttive.
L’utilizzo dell’istituto dell’amministrazione di sostegno come strumento per consegnare al futuro le istruzioni relative ai trattamenti sanitari che si dovranno o meno praticare, al sopravvenire di una situazione di incapacità, è il frutto di un percorso evolutivo che negli ultimi anni ha caratterizzato il rapporto medico – paziente e che ha portato all’affermazione del principio del consenso informato, quale regola secondo cui il medico non solo non può praticare interventi terapeutici senza il consenso del paziente, necessariamente consapevole ed informato, ma soprattutto non può eseguirli contro la volontà dello stesso.
Si tratta di un principio enunciato dall’ordinamento interno ma anche da norme di rango internazionale. Viene innanzitutto in rilievo l’art. 32 della Costituzione secondo cui “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. La norma, letta insieme agli altri principi ricavabili dagli art. 2 e 13 Cost., esprime il diritto all’autodeterminazione della persona, al rispetto del percorso biologico naturale, ed il rifiuto dell’idea che un trattamento sanitario possa essere imposto al paziente per il bene di quest’ultimo anche contro la sua volontà.
Il “consenso informato” costituisce quindi un diritto costituzionalmente garantito ad ogni persona e si sostanzia nella libertà di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ed anche eventualmente di rifiutare la terapia in tutte le fasi della vita, compresa quella terminale.
L’enunciazione del principio del consenso informato si rinviene anche in altre disposizioni normative interne, come ad esempio: l’art. 33 della legge 23 dicembre 1978 n. 833 - istitutiva del S.S.N. - che stabilisce il carattere di norma volontaria degli accertamenti e dei trattamenti sanitari; l’art. 6 co. 1 della legge 19 febbraio 2004 n. 40 che ribadisce la volontà consapevole della donna e dell’uomo in ordine agli eventuali problemi derivanti dalle tecniche di fecondazione assistita; l’art. 30 del "Codice di Deontologia Medica" del 1998, che individua i requisiti dell’informazione che deve essere fornita ai fini di un consenso al trattamento sanitario.
Sul piano internazionale vanno rammentati poi l’art. 5 della Convenzione del Consiglio d'Europa sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina del 4 aprile 1997 - nota come Convenzione di Oviedo - secondo cui gli interventi medici non possono essere effettuati se non dopo che l’interessato abbia prestato il proprio consenso libero ed informato, o ancora l’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea di Nizza del 7 dicembre 2000, che riconduce il principio all’interno del diritto all’integrità fisica.
Si tratta di diritti che hanno trovato più di una sponda sul fronte giurisprudenziale (cfr. Corte cost. 22 ottobre 1990 n. 471, in Giust. civ. 1991, I, 10; Cass. pen., sez. IV, 9 marzo 2001, n. 28132. Riv. pen. 2001, 806; Cass. pen., sez. I, 29 maggio 2002, n. 26446 in Riv. pen. 2002, 751; Cass. pen, sez. VI, 14 febbraio 2006, n. 11640 in Dir. e giust. 2006, 20, 80; Cass. civ. 16 ottobre 2007, n. 21748 sul caso Englaro, in Giust. civ. 2007, 11, I, 2366) e sono stati vigorosamente confermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 438 del 23 dicembre 2008 (in Foro italiano, 2009, I, 1328) che ha ribadito come il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configuri “quale vero e proprio diritto della persona” e trovi fondamento nei principi espressi nell'art. 2 della Costituzione, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 della Costituzione.
L’impiego giurisprudenziale dell’istituto dell’amministrazione di sostegno quale strumento di attuazione di tale diritto parte dalla consapevolezza che la perdita della capacità di intendere e di volere non comporta anche la perdita del diritto di autodeterminazione in materia sanitaria, ciò in perfetta aderenza all’art. 3 della Costituzione e all’art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Questo passaggio fondamentale ha spinto la giurisprudenza - in assenza di istituti tipicamente previsti a tal fine – ad adattare gli strumenti giuridici già esistenti alla necessità di garantire il mantenimento, anche in questi casi, del dialogo medico-paziente in ordine alle scelte terapeutiche da seguire.
L’estrema duttilità dell’istituto dell’amministrazione di sostegno e la finalità dello stesso, volto come esso è alla promozione della persona umana, ne hanno così consentito l’utilizzo non solo nel contesto economico-patrimoniale ma anche nell’ambito dell’assunzione delle decisioni relative alla cura e alla salute del beneficiario. Non a caso, nell’oggetto dell’incarico conferito all’amministratore di sostegno spesso compare il potere di adottare le decisioni che si rendessero necessarie per la salute del beneficiario e sovente è proprio l’amministratore il soggetto chiamato ad esprimere, in nome e per conto del beneficiario, il consenso informato alle terapie mediche e/o agli interventi, soprattutto quando l’interessato non sia in grado di determinarsi.
E’ quindi ormai superato l’originario e isolato indirizzo giurisprudenziale che escludeva la legittimazione dell’amministratore ad esercitare diritti personalissimi del beneficiario, soprattutto laddove ciò comporti la lesione di altri diritti fondamentali della persona.
Le direttive anticipate di trattamento. Nell’ambito di questa evoluzione, l’istituto dell’amministrazione di sostegno è stato utilizzato anche per rendere effettive ed attuabili le cd. direttive anticipate di trattamento (indicate con l’acronimo DAT), quelle dichiarazioni cioè attraverso le quali la persona esprime “in anticipo” la sua volontà riguardo ai trattamenti sanitari cui consente o non consente di essere sottoposta per il caso di una sua futura incapacità.
Nel caso esaminato dalla Corte nella sentenza in commento il beneficiario dell’amministrazione di sostegno aveva sottoscritto un documento contenente tali direttive ed aveva designato la moglie quale amministratore di sostegno per il caso di sua incapacità.
Vero è che nell’ordinamento italiano non esiste ancora una disciplina legislativa relativa alle DAT, ancorché ad esse facciano riferimento gli articoli 38 e 39 del Codice di Deontologia Medica del 2014, che impongono al medico, di fronte alle “dichiarazioni anticipate”, espresse dal paziente in determinate forme, di verificarne “la congruenza logica e clinica” con “la condizione in atto” e di tenerne conto in caso di “definitiva compromissione dello stato di coscienza”.
A livello sovranazionale si tende ad un ampio riconoscimento della validità di queste dichiarazioni.
La Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997 in materia di protezione dei diritti dell'uomo e della dignità dell'essere umano riguardo all'applicazione della biologia e della medicina (la cui ratifica è stata autorizzata con legge n. 145 del 28 marzo 2001 ma tuttora inefficace nello Stato italiano per il mancato deposito dello strumento di ratifica presso il Consiglio d’Europa) impone all’art. 9 di tener conto “dei desideri precedentemente espressi” dalla persona non in grado di esprimere la sua volontà nel momento del trattamento sanitario cui deve essere sottoposta. In diversi Stati europei, inoltre, le DAT sono disciplinate da appositi testi normativi (segnatamente in Olanda, Francia, Germania, Spagna e Inghilterra).
Quanto al nostro diritto interno occorre segnalare che la Camera dei Deputati, nella seduta dello scorso 20 aprile 2017, ha approvato un disegno di legge dal titolo “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” (atto C. 1142) e che attualmente il testo è all’esame della commissione referente al Senato (atto S. n. 2801).
L’art. 4 della legge approvanda, nel riconoscere il diritto ad esprimere le DAT in capo ad “ogni persona maggiorenne ed in grado di intendere e di volere”, ne disciplina la forma stabilendo che esse siano fatte (modificate e/o revocate) per atto pubblico, scrittura privata autenticata, scrittura privata “consegnata personalmente dal disponente” presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza oppure presso le strutture sanitarie informatizzate. Prevede inoltre forme speciali di manifestazione delle volontà di cura per le persone che non siano in grado di comunicare per via della loro disabilità (videoregistrazione o attraverso strumenti ad hoc) individuando altresì alcuni sistemi di conservazione e conoscibilità di tali dichiarazioni.
Interessante appare la previsione, sempre contenuta nell’art. 4 citato, circa l’indicazione di un “fiduciario”, che “faccia le veci e rappresenti il disponente nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie”. La nomina di un amministratore di sostegno diviene pertanto superflua e vi si ricorrerà solo in “caso di necessità” in mancanza del fiduciario, restando in ogni caso ferma l’efficacia della “volontà del disponente”.
Tralasciando i numerosi interrogativi che ingenera il testo di legge in via di approvazione, ciò che sembra irrisolvibile e che ha caratterizzato finora la difficoltà dei giudici tutelari nell’adattare gli strumenti giuridici esistenti alla necessità di rispettare la libertà di autodeterminazione del paziente divenuto incapace, è che il consenso (o il dissenso) al trattamento sanitario, per essere espresso validamente, deve essere informato ma soprattutto “attuale”, cioè riferito ad una specifica situazione concreta della quale si conoscano le caratteristiche essenziali (Cass. 23 febbraio 2007 n. 4211, in Guida al diritto n.10/2007 pag. 27; Cass. 15 settembre 2008 n. 23676, in Giust. civ. Mass. 2008, 9, 1363).
Già nel parere del 18 dicembre 2003 del Comitato di bioetica l’attualità del testamento di vita emergeva come uno degli aspetti deboli dell’istituto, ed in effetti la notevole distanza temporale tra la situazione prevista e la sua effettiva verificazione è uno dei punti critici delle direttive anticipate.
Se infatti la malattia o l’invalidità è già insorta, le dichiarazioni anticipate non sembrano incrinare il rapporto medico-paziente, poiché il sanitario vedrebbe il proprio operato rigidamente predeterminato da scelte che, di pochissimo, hanno preceduto lo stato totalmente incapacitante della persona. Al contrario, le stesse scelte compiute molti anni prima, di fronte a situazioni psicofisiche personali e di conoscenza dei progressi scientifici molto diverse, potrebbero rivelarsi non aderenti a quel dialogo costante e aggiornato tra sanitario e paziente, che solo può consentire l’assunzione di scelte consapevoli.
Tanto più ampia è la descritta sfasatura temporale, tanto più è messo in crisi il rapporto medico-paziente, così che il primo potrebbe ritenere le direttive anticipate non più criteri vincolanti ma meramente orientativi. Il medico ha infatti l’obbligo di valutarne l’attualità in relazione alla situazione clinica del paziente, agli eventuali sviluppi della tecnologia medica o della ricerca farmacologica avvenuti dopo la redazione delle dichiarazioni anticipate o che palesemente appaiano ignorati dal paziente al momento della redazione delle DAT.
Non sembra poi che sia possibile ovviare alla mancanza di attualità attraverso la previsione della revocabilità e/o modificabilità in ogni tempo delle dichiarazioni anticipate (facoltà queste previste espressamente anche nell’art. 4 del disegno di legge sopra citato) ovvero ammettendo la vincolatività di dichiarazioni eccessivamente generiche, disancorate dal dato scientifico in continua evoluzione (cfr. M. Leo, L’esistenza di una condizione d’infermità attuale è l’unico presupposto per l’operatività dell’istituto, in Guida al diritto n. 7/2013, p. 32). Sarà pertanto estremamente difficile capire quando queste dichiarazioni possano considerarsi self executing, prescindendo da un provvedimento autorizzativo giudiziale - fosse anche consistente nella nomina dell’amministratore precedentemente designato ad acta - soprattutto quando le DAT contengano il rifiuto di trattamenti salva-vita espresso molto tempo prima dell’insorgenza della patologia.
Proprio per queste ragioni l’art. 4 comma 5 del disegno di legge all’esame del Senato prevede che “il medico è tenuto al rispetto delle DAT” ma che, in accordo con il fiduciario, possa disattenderle in tutto o in parte qualora “appaiano palesemente incongrue”, o “non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente”, ovvero sussistano “terapie non prevedibili” all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire “concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”.
Si tratta di valutazioni che, se da un lato gravano di eccessiva responsabilità il medico che le deve compiere, dall’altro sminuiscono l’efficacia delle DAT quale espressione del diritto all’autodeterminazione in materia sanitaria, diritto che si sostanzia anche nella facoltà di “non essere curati”.
Marcella Fiorini
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